martedì 25 gennaio 2011

Il vecchio Cinema Eliseo

Pareva scomparire  sotto  l’incalzare  del  piccone  demolitore  il  vecchio  cinema  Eliseo,  poi  Ambasciatori  ,  che  sorgeva  in  via  Orefici  ad  un  passo  dal  mitico  Bar  Otello  .
L’antica  sala  cinematografica  sorta  nei  primi  decenni  del  dopoguerra  ,  ebbe  una  certa  notorietà  anche  per  un  caso  “politico”    che  sollevò  ondate  di  chiacchiere  in  tutta  Bologna
Non  ricordo  la  testata  giornalistica  ,  ma  sono    sicuro  che  un  giornale  milanese  imboccato  da  chi  non  si  sa  ,  un  bel  giorno  venne  fuori  con  la  notizia  che  il  nuovo  cinema  Eliseo  in  via  Orefici    faceva  parte  di  una  società  immobiliare  che aveva per socio   il  sindaco    Giuseppe  Dozza.
La  notizia  scatenò  un  finimondo   e  giunse  persino  sui  banchi    del  Consiglio  Comunale      Dove si  spense  immediatamente  nonostante una  minoranza  molto  agguerrita  e  dalla lingua  tagliente  ,  capitana  da  un    consigliere    che  non  perdeva  un  colpo  per  puntare  il  dito  contro  la  maggioranza  guidata  appunto  dal  Sindaco  . 
Questo  consigliere    era  un  uomo  di una    dialettica  formidabile  e  si  chiamava  Ettore  Tuffoletto  .  In  consiglio  Comunale  quando  chiedeva  la  parola  e  si  alzava  dallo scranno,  in      calava  un  silenzio  di  tomba  .
Quando  scoppiò  la  bomba    che    metteva    in  discussione  la  rettitudine  e  l’onestà  del  buon  Dozza,    Tuffoletto      la  maggioranza  dei  vecchi  senatori  della  corrente  democristiana  bolognese  alimentarono queste    illazioni,  invece  cavalcate  con  forza  da  alcuni organi  di  informazione      anche    al  di  fuori  dalle  mura  della  vecchia  Bologna  tanto che il  sindaco  Dozza  a  queste    voci  nate  per  diffamare  la  sua  declamata  onestà , rispose con   querele  a  destra  e  manca  .
Per  tornare  al  vecchio  cinema  Eliseo,  fuori  da  tutte  le  querelle  politiche  ,  c’è  da  dire  che  era  un  cinema   molto  bello  e  accogliente .
Con la sua vasta  sala   che copriva  tutto  il  tratto  che  partiva  da  via  Orefici  e  raggiungeva    la  stradina  di  via  del  Mercato  di  mezzo,  arricchiva  in  sfarzo  e  bellezza  la  ricezione  delle  sale  cinematografiche  bolognesi  dopo  la  chiusura  del  vecchio  Savoia  ubicato  in  via    Rizzoli , tanto che il  giorno  dell’inaugurazione  la  coda  degli spettatori arrivò  fino  a  metà  strada 
.  Nel  tempo  il  cinema  Eliseo    marcò  il  passo  .  La  proprietà  dell’immobile  che,  credo ,  non  ne  sono  sicuro,  fosse  di  proprietà  dell’amministrazione  ospedaliera  ,  più  volte  espresse  il  desiderio  di  un  cambiamento  di  gestione  .  Infatti  la  vecchia  dizione  da  Eliseo  divenne  Ambasciatori  e  sempre  seguendo  un  percorso  in  discesa  ,  per  un  lungo  periodo  la  vecchia  sala  divenne  un  cinema  a  luci  rosse .
L’Eliseo,  poi    Ambasciatori  per  anni  chiuse  gli storici   battenti nobilitati,  nei  giorni  invernali  dalla  vecchia  e  cara  figura  di  don  Marella  che si  accucciava  negli  angoli  privi  di  spifferi  del  portone  del  vecchio  cinema quando la temperatura era particolarmente rigida .
A  ricordare  i  fasti  del  lussuoso  ritrovo  rimase  per anni soltanto  la  dicitura  in  alto  sulla  parete , quella  iniziale  di  “Cinema  Eliseo” , rinata a nuova vita ai  giorni  nostri con le mura della   la  antica  sala  cinematografica ora adibite a libreria..

martedì 26 ottobre 2010

Il mistero della morte di Michele Bonaglia (parte prima)

Sono i primi giorni di Marzo , tra poco arriverà la primavera la stagione più bella e tanto attesa . Rifioriranno i colori, gli alberi prenderanno vita ,i rami spogli si vestiranno di foglie e di colori e l’aria sarà profumata come la vita dei monti . La neve è andata via da poco, ma la valle è cosparsa di nebbia spinta su dalla grande città come se laggiù fosse soffiata da mille bocche .
Oggi, secondo giorno di Marzo, è una mattina nebbiosa e fredda. L’aria punge la carne come tanti aghi.
Ha piovuto come Dio comanda a catinelle per giorni e giorni e la terra profuma di odori strani. Poi il tempo, improvvisamente si è rimesso in carreggiata,una striscia di sole, e nuvole basse ed infine la nebbia .
Da lontano si ode il rombo del cannone e il dirompere dei bombardamenti su Torino distrutta per una sua buona metà.
Quanto finirà mai questa inutile e tragica guerra .
Druento è un paese che è un buco nel mondo, uno sputo di terra in provincia di Torino.
:E’ il paese dove sono nato dove cammino, il rifugio dopo il girovagare per il mondo .
Ora sono vecchio e stanco e la vita mi sta sfuggendo dalle mani anche se ho nemmeno quarant’anni e Druento mi ha sempre accolto con applausi e insulti . Sono stato per anni il personaggio più popolare di questo borgo lontano dalle metropoli che metà degli italiani nemmeno conosce .
I paesani mi indicavano con il dito alzato .
- Michelone campione dei campioni -
Le marmocchie le ragazzole mi guardavano con ammirazione e sorridevano di nascosto ai fidanzati ai genitori :Ho visto il mondo,il meglio e il peggio dell’esistenza degli uomini . L’Argentina la Germania i mangia patate,l'Inghilterra e l’America grande come il mondo .
Oggi esco dalla sede del Municipio e vado verso casa
Sono le dieci di sera , un lampione , l’unico acceso della piazza di sbilenco illumina un angolo della piazza . Mi alzo il bavero della giacca e cammino a testa bassa .
Due tipi sbucano dalla nebbia come fantasmi che si sono materializzati dal niente .
Sono due tipi strani, mai visti in paese:, forse vengono da fuori , forse sono figli di una buona donna che mi chiedono un autografo .
Macché sono 10 anni che non salgo sul ring e questi due tipi sconosciuti non mi conosceranno di sicuro .
- sei Bonaglia ?” - mi apostrofa uno
Mi fermo e ho il tempo di osservarli.
Chi ha parlato e più piccolo di me,di una spanna. Ha la barba lunga di un colore che sembra dipinto con la peluria che appare incolta più corta sotto il naso .
Porta un cappello che gli copre meta della massa di capelli di un rosso sbiadito come la barba. Gli occhi cattivi con uno sguardo che ha qualcosa di strano, di forestiero, forse slavo, Ha occhi freddi vendicativi portatori di disgrazie, come i tipi che sono in lotta con il mondo . Nel pugilato , nel boxing ne trovi ad ogni angolo del mondo , balordi in cerca di un grammo di notorietà e in cerca di un applauso che non viene mai .
Il tipo ha le mani in tasta dentro un giaccone di stoffa grezza e poco pulita .
Il suo compagno è un perticone magro con le ossa che le spuntano da tutte le parti .
Non dice una parola forse è muto, forse non ci sta con la testa solamente scuote il capo coperto da un berretto di lana e apre la bocca in un mezzo sorriso che sa di idiozia .
Guardo l’altro quello che mi ha chiesto chi sono .
- Bonaglia il campione . - rispondo
Il bassotto ride, spalancando una bocca troppo grande per quel viso quadrato a forma di finestra .
  • Campione dei miei coglioni- ribatte ridendo di nuovo .
    Mi viene la mosca al naso, mi prudono le mani e stringo i pugni per preparare uno di quei colpi che ha steso tanti campioni sul ring .
- Sei condannato a morte . Sei uno sporco fascista torturatore di compagni !
Le parole sono come sassi che rotolano dalla montagna , sono come pietre angolate che ti colpiscono e mi fanno male perchè , a differenza di tante persone che consoco non ho mai toccato un prigioniero, ne sputato per terra al loro passaggio .
Sono sempre stato abituato a picchiare sul ring , a battermi con tipi alla pari, mai contro persone che non possono difendersi . E’ da vigliacchi .
Dite quello che volete , sparate bugie, ma non andate mai in giro a raccontare che Michele Bonaglia è un vigliacco che rompe le ossa a dei poveri Cristi indifesi .
Le ossa le spaccavo agli avversari , per questo i giornalisti hanno scritto che sono uno “Spaccaossa” uno che nella battaglia, nella lotta, non va per il sottile .
Quel tipo con la faccia da slavo, ghigna ancora le labbra e improvvisamente come se attendesse un ordine misterioso estrae dalla tasca una specie di cannone ,un revolver antidiluviano, vecchio come le montagne .Come un prestigiatore , la mano che prima era vuota , chiusa nella tasca ora appare armata da quell’arma sputa fuoco che tiene in mano .Ancora un ghigno poi il dito tozzo spinge con forza sul grilletto ed escono in fila indiana tre pallottole . La prima mi penetra nella spalla, vicino al collo, la seconda più in basso e la terza in testa a metà della fronte .
Il rumore dei colpi è così forte che i due quasi si prendono paura.
L’ultima cosa che vedo è la mano che impugnava la pistola che trema e gli occhi del bassotto che si riempiono di felicità.
Nell’attimo che sto per cadere, una folata di vento mi asciuga una lacrime e .ho l’impressione che la mano di mia figlia mi accarezzi e tenta di fermare il sangue che esce dalle ferite .
I due corrono lontano, i loro passi veloci sfidano la nebbia .
Io sono a terra , respiro forte, cerca d aggrapparmi alla vita, per tenerla con me il più possibile , non voglio morire , ho una famiglia sono giovane , amo la vita . Accidenti a quel scemo che mi ha sparato, che c’entra lui con me, non ci siamo mai visti, non lo conosco. Come si permette di sparare a uno che vede per la prima volta che non sa nemmeno che ho fatto nella vita .
Solo perché indosso una camicia nera ? Accidenti a te .Poi quella frase stupida e vuota
“Sei condannato a morte
Ma cavolo, chi mi ha giudicato? Chi mi ha processato? Cosa sanno di me ?
Non mi piace morire così con la nebbia il freddo, ora che il tempo si è messo al bello . Non voglio lasciare la mia famiglia, mia figlia, la casa la donna che ho portato all’altare . Accidenti a loro .
Nessuno viene ad aiutarmi a sorreggermi : Qualcuno deve portarmi all’ospedale è un dovere , ma rimango solo nel vuoto di un giorno di nebbia .
Osservo il sangue che mi esce da tutte le parti meravigliandomi di averne così tanto .
La testa mi fa un male del diavolo, un dolore che non è quello dei pugni ,ma che si espande da tutte le parti e mi toglie il respiro .
Dove sarà mia moglie? Mia figlia? Gli amici? Perché mi lasciate solo, aiutatemi . Con il corpo steso a terra gli occhi rivolti al cielo in un baleno la mia vita, la mia sporca vita mi passa davanti agli occhi nitida , precisa con i colori stampati nel cielo . Michele Bonaglia, lo “spacca sassi” il campione , il pugile mai dome .
Il ring , le vittorie , i viaggi , le truffe le delusioni , la felicità , tutto mi si espande nel cervello mescolato al dolore, alla morte che mi sta stringendo a se .
Non è così che volevo chiudere il conto con la mia vita, avrei preferito chiudere gli occhi sul ring dopo una sfuriata di pugni presi e dati ,come muoiono i campioni . Questa chiusura della vita rappresenta un quadro dei più brutti che un pittore possa dipingere .
Mi pare di vederli i titoli dei giornali domani .
“Michele Bonaglia freddato da due sconosciuti davanti a casa
Michele Bonaglia ex campione ucciso per sbaglio
“L’ex campione Michele Bonaglia freddato da due partigiani
Partigiani ? Ma che cavolo scrivono?
Quelli sono banditi che amano sparare tanto per fare qualcosa .
Partigiani? Ma che c’entro io con loro?
Due faccie da galera con il revolver in tasca che vanno in giro a sparare alle persone che hanno famiglia e che si fanno gli affari suoi .
Due persone che si presentano e nemmeno ti lasciano il tempo di replicare di parlare di capire il perché ti puntano un cannone in faccia .
Ma che scherziamo?
Va bene che siamo in guerra , ma si spara al fronte non per la strada a persone che camminano in santa pace.
Dall’osteria che è a pochi passi non esce nessuno, la paura degli spari ha tagliato le gambe a quelli che vociavano la dentro .
Nessuno viene ad aiutarmi a sollevarmi il capo, a togliermi da questa posizione ad asciugarmi il sangue che mi esca da tutti i buchi.
Sento la vita che mi lascia . Il corpo è freddo , il sangue continua ad uscire , e nessuno viene a soccorrermi .Nemmeno un volto di persona si china su di me . nemmeno un prete che mi benedice prima di salire in cielo . Ecco un rombo di un cannone , lontano che rompe il silenzio. E’ il tuono della guerra che si combatte lontano, ma anche vicino, dalle mie parti su di me .
Il freddo ora è intenso , sono leggero senza più nulla addosso . Forse sto salendo il cielo, ma da lontano odo il fragore della folla attorno al ring che grida il mio nome che batte le mani che urla e grida .
Campione!
Campione !
E l’arbitro che mi alza la mano che mi indica campione .
Si li sento grazie per ricordami un soffio della mia sporca e gloriosa vita .
Grazie .


martedì 5 ottobre 2010

Addio ultimo tram

Ogni volta che passo da Piazza Minghetti, mi fermo a guardare dove a ridosso della siepe che delimita il giardinetto, c’era, e c’è ancora la fermata dell’autobus che porta a San Ruffillo.
Una volta era il tram , il n° 13 e faceva appunto capolinea quasi sotto il monumento al buon Minghetti che saluta con il cappello in mano .
Nel freddo mattino del 3 Novembre 1963, l’ ultimo tram a fili elettrici di Bologna partì appunto da quel capolinea per dirigersi verso la periferia lungo la direttrice Santo Stefano, via Murri (allora via Toscana), poi Chiesa Nuova e San Ruffillo ma questa volta, come un sogno che svanisce alle prime luci dell’alba, non tornò più .
L’Azienda tranviaria aveva inteso sostituire il vecchio mezzo di locomozione a manovella, con un servizio più moderno e adeguato ai tempi, un mezzo maggiormente veloce, con maggior movimento sulle strada e, si pensava, molto più rapido
Lo salutò una folla di curiosi , qualcuno con il “ magone” che usciva dall’espressione triste dello sguardo, molti curiosi e molte autorità .
L’ultimo tram era li immobile, fermo sulle rotaie ancora in funzione, vuoto come non avesse un anima e neppure un cuore, con un aspetto triste, anche se la carrozzeria era stata tirata a lucido, pulita e fresca, quasi che fosse stata riverniciata di fresco.
Qualche vecchio tranviere che aveva passato tutta la vita a girare la manovella, con la mano riparata da una metà di un guanto, osservava la scena con una espressione assorta, quasi trasognata o, forse , delusa .
Il tram è stato uno dei più bei ricordi della mia infanzia, dei miei anni giovanili .
Quando abitavo a S Ruffillo, il tramvai che veniva dal centro, si fermava come capolinea prima del ponte, a ridosso di una antica villa, credo si chiamasse “ villa Piana” e li attendeva l’orario per ripartire nel solito tratto. La prima fermata la faceva alle scuole Tambroni, poi alla località Frasca e via verso il centro. A Chiesa Nuova, in certi giorni della settimana, veniva agganciata una carrozza supplementare che portava la folla fino al centro .
La storia del tram a Bologna inizia nel lontano 1880, quando una società Belga prese in appalto il servizio e dal 15 settembre di quell’ anno, iniziarono a circolare.
Il tratto di marcia della sperimentazione tranviaria era il tratto da Piazza Vittorio Emanuele , ora piazza Maggiore, alla Stazione, un tragitto che si percorreva più velocemente a piedi che con il nuovo mezzo e i suoi stanchi cavalli .
Infatti i tram erano trainati da patetici ronzini, mal nutriti , con le ossa sporgenti tanto è vero che la popolazione prese a protestare vivamente sulla sorte di questi poveri animali che venivano additati alla pietà dei bolognesi. Ci furono infinite protesta alla società Belga tanto è vero che il direttore fu più volte minacciato di brutto e per due volte, poiché non se ne dava per inteso, si prese una bella razione di bastonate dalla popolazione
Capitavano tra l’altro anche vari inconvenienti , come quel pomeriggio che uno dei due cavalli da tiro, “ scioperasse” forse per fame, forse per sfinimento e si inginocchiò sul centro della strada mentre il conducente inveiva con frasi non davvero concilianti .
Un altro inconveniente , era che le ruote uscivano dagli “improvvisati” binari non ancora ben fissati nella carreggiata , ci voleva una buona dose di pazienza per farli rientrare .
A far concorrenza ai tram trainati dai cavalli, vennero gli Omnibus, una specie di diligenza sempre trainata da cavalli, ma molto più veloce e con un servizio rapido .
Bologna era divenuta una città “sperimentale “ per questo mezzo di locomozione e quando nel 1881 tentò di soppiantare il traino dei tram a cavallo con la nuova carrozza a vapore dal nome francese, i bolognesi si misero a ridere di gusto.
I “ cinni” o meglio , i “Birichini “ si divertivano a sabotare questi nuovi mezzi di trasporto del pubblico, con stramberie tutte nuovo , ideate da menti geniali fervide e sagaci. Nelle rotaie appoggiare sul terreno, senza mezzi di fissazione, venivano sbarrate o interrotte con qualche diavoleria, inventata li per li .
Finalmente con l’evento dell’elettricità , anche il servizio tranviario si modificò.
La prima vettura tranviaria a trazione elettrica, azionata dalla corrente vide la luce nel lontano 1904 .
Gli inizi , anche qui non furono molto felici . I bolognesi temevano che sulla piattaforma o seduti nelle panche, si sentissero troppo le scariche elettriche che venivano dal contatto con i fili e ci volle molto tempo per far capire ai viaggiatori che il pericolo non esisteva per niente.
Con l’introduzione dei tram a corrente elettrica, la società si trasformò . Si formò il “parco” tram fuori porta Galliera in località “Zucca” dove terminavano tutte le linee, si fecero corsi per il personale conduttore e bigliettaio e si usò una divisa propria che il personale doveva usare in servizio.
Lentamente il “servizio urbano “ si espanse . Dal centro le rotaie tramviarie incassate nel terreno iniziarono a condurre verso la periferia .
Il primo tratto lungo , fu Bologna centro - Casalecchio.
Questo avvenne nel 1907 quando l’ allora circondario casalecchiese era servito dal famoso
“ Vaporino “ che faceva capolinea in piazza Malpighi e che fu sostituito dalle rotaie del tram, seguito quasi a ruota dal suo “gemello” “ Il Vaporino 2” che portava la folla da Castel S Pietro a Bologna facendo tappa alla porta Maggiore.
Il tram a trazione elettrica divenne la novità che trasformò i percorsi e le abitudini di tutti i bolognesi .
Da “ cinni” ci aggrappavamo all’esterno dei veicoli nelle parti sporgenti, quasi sempre sul predellino, pronti a scendere veloci quando il tram si fermava e il bigliettaio cercava di raggiungerci per una buona e salutare ramanzina Del vecchio tram mi affascinava la grande ruota che era fissa alla piattaforma anteriore e che serviva da freno a mano e, la campanella di avviso , che era in una sporgenza. che usciva vicino al posto di marcia del guidatore il quale l’azionava con un colpo di piede annunciando l’avvicinarsi del mezzo, avviso quasi sempre indirizzato ai possessori di carri trainati con i cavalli che occupavano la carreggiata delle rotaie ..
In molte zone della città, specie dove il tram curvava, capitava che le “rotaie” o per cedimento del terreno adiacente o per la messa in opera troppo frettolosa, emergevano dal suolo stradale di qualche centimetro ed era il pericolo maggiore per le biciclette, i furgoncini e le moto tanto che vi era una tratto di rotaia fuori porta Galliera , verso Casaralta , che era conosciuta come “la rotaia assassina” per i tanti incidenti che causava.
Un tragico esempio della pericolosità di queste rotaie, fù in una edizione della Mille Miglia quando, a porta Zamboni, la pioggia e le rotaie più alte del manto stradale, fece sbandare l’auto di un concorrente causando una carneficina di morti e feriti .
Una altra innovazione si vide in tempo di guerra quando molto personale femminile sostituì quello maschile che era in larga parte al fronte, abituando così i bolognesi a donne che guidavano i colossi o ne assumevano il ruolo di bigliettaie.
Negli anni cinquanta- sessanta , anche il tram elettrico fu sostituito dai “Bus” e più avanti dagli “autobus”.
Tuttavia il ricordo del tram non è scomparso. E di tanto in tanto quando ci rechiamo in altre città come Milano, Roma e si sale sulle vetture che sembrano uscite da epoche che sono solo ricordi, una strana e dolce malinconia ci prende la gola.

giovedì 2 settembre 2010

Árpád Weisz


C’è  un  uomo  sospeso  nel  vuoto                                              
che  non  ha  una  lapide  sulla  terra
perché  il  suo  corpo  fu  gasato                                       
buciato  nei  lager  nazisti.
                                                
Questo  uomo  divenuto  polvere                                  
portava  un  nome  ebreo  ,
Árpád Weisz
ed  era  un  mago  nei  campi  di  gioco  
                  
Approdò  nella  città  turrita                                            
per  la  continuità  delle  vittorie                                        
di  un  Bologna  campione  dei  campioni                         
vincendo  scudetti  e    coppe  internazionali .                       

E  non  sorrideva mai                                                          
perché  conosceva  l’odio  dei  vili
contro  la  sua  razza .                                                       
nei  giorni  della  infame  legge                                     
sulla  gestione  della  razza.
                                     
Lasciò  i  ragazzi  ,  la  città  ,il  pallone                
e  tornò  nella  sua  terra  d’origine                         
parlano  le  cronache  che  fu  imprigionato            
condotto  nei  lager  della  morte                          
e la  sua  vita  divenuta    polvere .

Perché portava  un  nome  ebreo  ,
 Árpád Weisz                   
…ed  era  un  mago  nei  campi  di  gioco
  

La Banda dei Tatuati (capitolo del lavoro inedito: Bande e Banditi Bolognesi)


Agli  inizi  del  secolo  passato,  attorno  al  primo decennio,  negli  anni  appena  all’inizio  del  novecento,  la   Questura  di   Bologna   era  organizzata  con  un  gruppo   di  funzionari  di  grandissima  esperienza  in  fatti  criminosi   e  molto  temuta  dalla  teppaglia  che  si  destreggiava  in  furti   e  rapine  di  ogni  tipo.
Il  capo  della   squadra  investigativa,  che  era  stato  chiamato  a  Bologna  per  mettere  fine  all’espandersi  di  alcune  bande  criminali  capeggiate  da  uomini     che  sprezzavano  il  pericolo,   era  un  uomo  alto  massiccio,  molto  attivo  nel  suo  lavoro  e   subito  fu  indicato  dalle  bande,  come    il  pericolo  pubblico  numero  uno  per  i  malavitosi.
Questo  signore  si  chiamava  Avv.  Ungari   ed  era  un  tipo  che  andava  per  le  spicce   con   rapidità  ed  energia.
Alla  prima  conferenza  stampa,  si  presentò  dichiarando  chiaro  ed  esplicitamente   che  seppure  Bologna  rappresentava  una  fogna  di  topi   e  pure  se   questi   guazzavano   in  ogni  antro  puzzolente  della  città,  lui  li  avrebbe  assediati  e  annientati.
“ Promessa,-  aggiunse  - E  quanto  io  prometto,  signori,  mantengo.
Il  delegato    Ungari    formò  all’uopo  una  squadra     fatta  su  misura  per  questo  incarico  con il  suo  braccio  destro  , il  maresciallo  Zanini   e  una  squadra  composta  dal  brigadiere Ferreri ,   Algliati   e da  altri  agenti.
Il  maresciallo   Zanini  era  il  punto  fermo  per  il  nuovo  comandante,  essendo  questi  nato  e  vissuto  in  città  e  molto  conosciuto  tra  le  squadracce  di  banditelli  e  ladruncoli  che  furoreggiavano  in  città     e  fuori  le  mura .
La  Bologna    ladresca  di  quei  tempi,  non  era  composta  soltanto  di  meschini  tagliaborse,  di  pollaioli  ,  di  bellimbusti ,  di  trafficoni,  ma  vi  era  anche  del  solido .
Infatti  si  era  andata  formando  all’ombra  di  questi  ladruncoli  da  quattro  soldi,  una  banda  vera  e  propria  che  amava  definirsi,  alla  moda  Francese  della  famigerata  “ Banda  Bonnot”  ,  la    “  Banda  dei  tatuati.
Questa  combriccola  di  vecchi  pregiudicati,  “  votati   al  furto,  allo  scasso   e  se  occorreva  all’assassinio,  usavano   il  vezzo  di  tatuarsi  sul  braccio  marchi  con  scritte  ,  che  usavano  come  strofa  per  il  loro  inno
“Viva  i  ladri  di  ogni  tipo  :
Viva  la  ladreria:
Abbasso    e  morte    alla   polizia  “
I  capi  di  questa  banda  che    incuta  terrore  e  paura,  erano    i    due fratelli   Tinti  :  uno,  Ugo  il  capo   e  l’altro  Luigi   di  un  gradino  più  basso.
Ugo Tinti  ,  detto  anche,  fra  i  tanti  nomignoli  che  gli  avevano  affibbiato,  “L’ortolano”,  per  via  del  mestiere  del  padre   che coltivava  un  appezzamento   di  terreno  adibito  a orto,  era  nativo   di  via  del  Borgo,  una  zona,  a  quei  tempi,  frequentata  da  persone  malavitose,  come  del  resto altre  stradine  i  vicoli  della  vecchia  Bologna  ;  come  il  Borghetto  di Santa  Caterina,  Borgo  Polese,  dove   si  installarono  le  prime  case  chiuse,  il  Pratello,  la  Fontanina,  stradine  come via  Mirasole,  Solferino  e  Paglietta.
Ugo    Tinti   iniziò   molto  presto  la  carriera  del  bandito   e  in  giovane  età  era  già   un  affezionato    “ cliente  “  della  Questura  di  Bologna,  che  aprirono  il  fascicolo    indirizzato  a  suo  nome  quanto  aveva  15  anni.  Preso  e  sbattuto  in  carcere,  nel  carcere  minorile,  da  lì  iniziò  a  creare la sua carriera   di  bandito  .
Uscito  ,ancora  minorenne,  in  combutta  con  il  fratello  Luigi   e  amici  di  galera,  mise  in  piedi  una  vera  banda  che  prese  poi  il  nome  di  “  Banda   dei  tatuati”  o  “  Banda  Tinti  “  a  seconda  come  più  piaceva  chiamarli.
Il  gruppo  era  composto  dai  nomi  più  conosciuti  in  città  come  elementi    criminali,  quali  ad  esempio   Adelmo Pedrini  gaglioffo  di  prima     lega,  Giovanni  degli  Esposti,  ed    ancora,  il  coraggioso Cesare  Marchesini  che  non  si  tirava  indietro  nemmeno  davanti ad  un  fucile  puntato,  meglio  conosciuto  nei  registri  della  Questura  come  il  “  Papà  dei  ladri  “
Più  avanti  quando  la  banda  si  era  consolidata  e  il  suo  nome     faceva  tremare  mezza  Bologna,  Tinti  fece  entrare  nel  gruppo  una  donna,  la  sua  amante  :  la  bellissima  e  smagliante  Luigina  , o Nina  o  anche  Giggetta.
Questa  bellissima  ragazza,  una  vera   immagine  d’artista  che  tutta  Bologna   invidiava  per  procacità  e   avvenenza,  era  un  giovane  cerbiatta,  alta, dalle  movente  flessibili,  lunghi  capelli  corvini   e  gambe    da  far  girare  la  testa  a  tutti  gli  uomini  non  solo  di  Bologna.
“  Se  fosse  vissuta     cresciuta  in  un  altro  ambiente,  in  una  società  di  persone  cosiddette  perbene,  vestita    come  è uso  in  certi  ambienti  e  truccata  in  modo  sapiente,  ben  pulita  ,  la  bella  Giggetta   sarebbe  stata  la  più  bella  donna  del  mondo,  parola  di  chi  se  ne  intende  “  scriveva  un  cronista.
Nel  Pratello,  dove  aveva  abitato  parecchi  anni,   la  chiamavano  “  La   Lina   Cavalieri  di  Bologna  “  per  via  di  una  certa  somiglianza   con  la  famosa  attrice-  cantante.
Di  cognome  si  chiamava  Jodice  e  dicevano  che  fosse  il  frutto  di  un  amore  stregato  tra  una  cameriera  e  un   grosso  signore  di  fuori  Bologna.
Il  delegato  Ungari ,  che  da  tempo  era  sulle  tracce  di  Tinti  per  vari  grossi  furti  commessi  in  Bologna  e  fuori,   prese  a  pedinarla,  venendo  così a  sapere  che  la  bella    Giggetta  amoreggiava  con  il  Tinti  Ugo  non  LuigiUgo  Tinti  a  quel  tempo,  siamo  attorno  al  1907-8 , era  già  un  ladro  molto  conosciuto.  Già  uomo  fatto,  sui  vent’anni,  fisico  asciutto,  bella  presenza,  dai  lineamenti  molto  marcati,  grandi  baffi  a  manubrio,   aveva  già  portato  a  termine  grosse  rapine  che  gli  valsero  grande  notorietà  nell’ambiente.
Nel  1908,  dopo  un  lungo  pedinamento  eseguito  dal  fido Zanini, si seppe che   la Giggetta    usava    entrare  spesso  in  un  casamento  in  via  Santa  Croce,  una  strada  molta  vicina  al  Pratello.  In  quel  casamento,  abitava  un  noto  pregiudicato,  un  elemento  della  banda  dei  tatuati  ,  un  certo   Carlo  Zaccherini  .
Tinti  da  tempo  si  era  messo  in  competizione  con  il  Delegato  e  lo  stuzzicava  con  bigliettini  a  carattere  di  sfida   che  Ungari    lasciava  correre.
“Caro  delegato,  perchè  non  mi  vieni  a  prendere  ?  l’aspetto  domani  al  tal  posto  !”.
In  fondo  come  firma,  Tinti   marchiava  il  foglio  con  il  suo  tatuaggio  e  con  un  indirizzo,  ovviamente  falso.
Dopo    parecchie  settimane   ,  il  delegato  era  convinto  di  aver  trovato   finalmente,  il  nascondiglio  di    Ugo  Tinti perché tenendo  d’occhio  la  bella  Nina,  il  poliziotto  notò  che  appena  la  ragazza  entrava nel  portone  c’era  un  certo  movimento  ad  una  delle  finestre  del  primo  piano  e  al  poliziotto  parve  di  notare  uno  dei  due  fratelli  Tinti.
Giorni  fa,  la   Questura ebbe  notizia  certa  della  segreta  dimora   del  Tinti   e  dette  incarico  al  Delegato  Ungari   di  fare  pratiche  opportune  per  arrestarlo
Il  Delegato  dopo     indagini  accurate   pervenne  a  sapere  che   il  Tinti   si  nascondeva  appunto nella  casa  al  numero  9  di  via  Santa  croce  e  che  amici  fidati  facevano  la  guardia  per  avvertirlo      possibile   sopravvenire  degli  agenti  per  arrestarlo  “
Impresa  non  facile,  perchè  Tinti  aveva  scelto  uno  stabile,  occupato  da  39  famiglie,  molte  delle  quali   era  di  infima  fama   e  molti  stavano    dalla  parte  del  bandito,  per  interesse  o  per  amicizia  ed  erano  prontissimi  a  proteggerlo  e  farlo  fuggire.
Tra  l’altro  il  casamento, sia  sulla  parte  frontale  che  in  quella  posteriore,  aveva dei  porticati,  tipo  “ Androne  “   dove  era  facile  nascondersi  o  fuggire  senza  essere  visti. Inoltre era  situato  sul  canale   Reno   da   un  lato  e     via  del  Pratello  dall’altro,  ubicazione  che  si  prestava  benissimo  come  fuga  da  ambo  le  parti.
Insomma:   ad  una  osservazione  esterna,  c’erano   tutte   le    caratteristiche    di  un  fortino  ben  protetto   e con  visibilità   dall’interno  all’esterno    di  ampia  estensione.
Il  delegato  Ungari,     cercò  subito  di  individuare  l’esatto   appartamento  dov’era  nascosto  il  pregiudicato  e  a  forza  di  pensarci,  trovò  la  soluzione  giusta.
Nei suoi appostamenti,  aveva  notato   che  uno  spazzino  in  divisa,  depositava   il  carretto  con  l’immondizia  davanti  allo  stabile  dalla  parte  di  via  Santa  Croce,  poi    passava   di  casa  in  casa   a  raccogliere  il  “  rusco”,  cioè  il  pattume.
 Così  Ungari  prese  un  poliziotto  ,  lo  vestì  da  spazzino  e  lo  mandò  a  bussare  porta  dopo  porta,  per   scoprire  il  rifugio  di  Tinti.
Ci  vollero  quattro  giorni,  finché  il  finto  spazzino   individuasse  il  nascondiglio   del  ricercato  “Per  quattro  mattine   di  seguito,  l’agente  travestito  da  spazzuraio,  si  recò nella  famosa  casa  per  chiedere  agli  inquilini   se avevano  immondizie  da  portare  via,   Aveva  il  suo  carretto   e  la  sua  pattumiera   da  spazzaturaio  autentico   e  giunse a  capire  che   il   Tinti   abitava  al  n. 14,  al  secondo  piano  insieme  alla  sua  amante  “
Il  delegato  Ungaro  o  Ungari  a  secondo  dei  cronisti,  venuto  a  conoscenza  dell’ esatto   covo  del  bandito,  preparò   un  piano  molto  accurato  per  la  cattura,  disponendo    per  precauzione,  l’accerchiamento  dello  stabile,  cercando  di  chiudere  gli  accessi    alle  cantine  e  ogni  via  d’uscita  dagli  androni,   che  portavano  lungo labirintici percorsi alla  sponda  del  canale  di  Reno.
Tinti,  però  da  uomo  accorto  e  furbo,  aveva  annusato  qualcosa  di  strano  .
Primo  la  figura  del   spazzino  che  si  guardava  intorno  con  troppa  circospezione  chiedendo  alle  porte, notizie   sugli  abitanti,  poi  il  suo  fiuto  da  uomo  braccato  che  gli  suggeriva  il  doppio  di  attenzione.
Infatti  la  mattina  dopo,  all’alba,  Ugo  ,il  capo  dei “ Tatuati  “    mandò  in  strada  la  sua  bella  con  l’intento  di  vedere se c’era  qualcosa  di  sospetto.
Raccontano  che  la  bella  Giggetta  passeggiasse  alle  prime  luci  del  mattino  per    Santa  Croce  sculettando  e  alzando  la  gonna  sino  alle  ginocchia,  nell’intento  di  destare    lo  sguardo  di  qualcuno   appostato,  e  il  trucco   gli  riuscì.
Un  paio  di  agenti,   non  riuscirono  a  trattenersi  nel  scrutare  le  forme  della  bellissima  ragazza  e  misero  fuori la  testa  dal  loro  nascondiglio.
La  Giggetta  li  notò  e  subito  ragguagliò  il  Tinti  del  pericolo   e  dell’agguato  che  gli  stavano  tendendo.
Intanto  che  la  bella    Giggetta  ,  o  Nina,  raccontava  a  Ugo,  come  erano   disposti  gli     agenti,  il  delegato  Ungari  con  i  fidi Zanini,  Ferretti  e  Aglietti  erano   arrivati  al  porticato  e  si  preparavano  a  salire  le  scale  del  portone  contrassegnato  con  il  numero  14.
Erano  le  10,20  del  mattino.  Tinti  armi  alla  mano  era  pronto  a  difendersi  a  costo  della  vita,  con  a  fianco  la  sua  donna  che   preparava  le  armi.
Alle 10,30,  Ungari ,  che  aveva  chiesto  rinforzi,    notò  un  grappolo  di  agenti  in  divisa  che  accerchiava  il  casamento  disponendosi  in  misura  da  chiudere  ogni  uscita  .
Il  capo  della  banda,  vista  la  mala  parata,  e  constatando  che  ogni  via  di  fuga  era  bloccata,  pensò  di  uscire   dall’accerchiamento  nel  classico  modo  degli  evasi  dal  carcere   :  annodò  alcuni  teli,  li  dispose  fuori  dalla  finestra  e  tentò  di  calarsi  di  sotto.
“Ma sia  che  la  finestra,  fosse troppo  alta,  o  che  lo  avessero  scorto  le  guardie,  fatto  sta  che  Tinti  dimise  il  proposito  e  ritornò   all’interno  della   casa “
Fuori,  sul  pianerottolo,  il  delegato  e  i  suoi  uomini   intimarono  la  resa  del  Tinti.
“Sei  circondato  ,  non  cercare  di  resistere,  non    puoi  scappare “
Tinti   tentò  di     parlamentare  ,  mente  la  sua  donna,  in  piedi  sulla  finestra,    furiosa  e  inviperita,  alzando  la  gonna  in  segno  di  schermo  insultava  le  guardie  e  gli  agenti  con  grida  oscene  e  con  gli  occhi  fuori  dalla testa,  e  nello  stessa   maniera  incitava  la  gente  e  il  popolo  di  via  Santa  Croce  a  ribellarsi  alle  forze  di  polizia,  ed  aiutare  gli  uomini  della  banda  alla  fuga .
Le  invettive  della  giovanetta,  si  sentivano  persino   nella   via  del  Pratello  e  tutte  le  donne    della  strada  ascoltavano  le  sue  grida  “
La  trattativa  duro  pochi  minuti.  Il  poliziotto  sentendosi  forte  di    uomini  e  di  mezzi,  minacciò  di  entrare  in  casa  con  la  forza  ,  abbattendo  la  porta,  mentre     gli  uomini  della  banda  cercavano  di  persuadere  il  Tinti  alla  resa.
Era  ,ovviamente,  una  scena  da  film  americano,  di  quelli  a  tinte  forti.
Dalla    strada  gli  agenti  che  ogni  tanto  sparavano  qualche  colpo  a  scopo  intimidatorio,  dall’altra  sponda  sia  le  grida  e  le  invettive  della  bella  Giggetta,  che  la    risposta  ad  alcuni  spari,  creavano  uno  scenario  davvero  inusitato .
“Le  genti   agglomeratasi  nella  via  pel  timore  che  succedesse  qualche  cosa  di  più  serio,  scappava   “
Le   trattative  continuavano  sempre  più  minacciose ,  con  spari  alternati  tra  le  forze  di  polizia  e  i  banditi.
“Nel  corridoio   vicino   all’uscio del  numero  14,  c’è  una  finestra  di  fronte  alla  quale   sta  l’altra   della  cucina   del  Tinti  :  da   queste   due  finestre  succede  un  dialogo  fra  le  guardie  e  il  capo-banda :  quando  questi   ad  un  dato  momento,  infastidito ,  si  ritira  all’interno  e  si  ode un  colpo  di  arma da  fuoco.
Alla  denotazione  succede   il  silenzio  :  le  guardie   dubitano  che  il   Tinti   abbia  ucciso  l’amante.  Lo  chiamano  di  nuovo   ed  egli  si  affaccia  alla  finestra.
La  scena    sembra  diventare  tragica.”
Tinti  indietreggia,  spara  altri  colpi,  ma  dall’esterno  la  voce  possente  del  delegato  lo  intima  per  l’ennesima  volta  di  arrendersi.
Il  bandito  capisce  che  per  lui  non  vi  è  più  scampo,    tenta  un  diversivo,  butta  la  pistola  dalla  finestra   e  dice  di  arrendersi.
“Il  Tinti  consegna  l’arma,  ma  non  apre   e  gli  agenti  temono  che  abbia  in  casa  altre  armi.
Il  Delegato  Ungari,  manda  a  prendere   un  martello  per  fare  abbattere  la  porta  nel  tempo  stesso   che  gli  agenti  coi   revolver  puntati  intimano   al  Tinti  di  non  allontanarsi     dalla  finestra.
In   questo  frattempo  sopraggiunge  il  Commissario  Cav    Campanella   della  sezione   di  Ponente  mandato  in  rinforzo  dal  Questore,  ed  allora  il  Tinti  si  arrende   ed  è  finalmente  arrestato.
Unitamente  al  Tinti,  nella  stessa  camera   è    arrestata  l’amante   e  certo  Torre  Enrico   di  24  anni     dimorante  in  via  del  Pratello  65   quale  contravventore  alla  vigilanza  speciale .
Nell’abitazione   dove  era  nascosto  il  Tinti  fu  rinvenuta  della  refurtiva  rubata  in  qualche    posto  compreso  una      “  bicicletta   quale  compendio   di  un  furto  di  sette   biciclette  rubate   alla  Montagnola   al  signor  Teofilo  Ruffini.   Furono  pure  sequestrate  dieci  fiasche  di  vino,  tre  di  conserva,  quattro   cappelli   di  feltro,  un  vestito,  una  blouse,  un  ciondolino  d’oro    e  altri   piccoli  oggetti.”
Come  si  evince  dalle  note  del  verbale,  non  è  che  la  banda  occultasse  dei  tesori,  o  fosse  in  possesso  di  ingenti  somme,  a  meno  che  ,  il  grosso  dei  bottini  fosse  nascosto  da  altra  parte  :   tuttavia    all’atto  dell’arresto  ,  il  famoso  bandito  risultava  ,  da    quello  che  aveva  sottomano,  un    povero  pollaiolo.

Il  cronista  nella  elencazione  di  quello  che  il  “  covo  “  teneva   in  bella  vista.
“Un  particolare  ;   il  terzetto  degli  arrestati   si  stava preparando  per  il  pranzo  di  mezzogiorno    e  da   buon  bolognese    sul  tavolo  di  cucina   vi  era  già  pronta  una  pentola  per  il  brodo,  un  tacchino   che  chi   sa  da  che  provenienza  veniva.
La  cronaca  dell’arresto  si  sofferma  sui due  amanti  e  sopratutto  sulla  bella  ragazza    ammirata  e  desiderata  da  mezza  Bologna.
“Questa  splendida  figliola,  ammirata  nata  e  cresciuta   quasi  da  sola  nel  sottobosco  della  malavita,  oltre  ad  essere  la  compagna  fedele  ed  inseparabile  del  Tinti,  all’atto  dell’arresto     si  rivelò  una  vera  belva.
Il  delegato  Ungaro  si  prese  un  forte  calcio  negli  stinchi   ed  altri  agenti   accorsi   furono  inondati  di  sputi   e  graffi,  sputi  che  uscivano  dalla    bella bocca  della  Giggetta   e  dalle  unghie  affilate   delle  sua  mani.
In  carcere,  in  manette   e  incatenata,  cantava  una  canzone   appropriata    all’amante.
Messo  in  carcere    Ugo    Tinti  se  la  rideva  pensando  al  resto  della  banda  che  era  risultata  lontana  dal  punto  della  cattura,    resto  della  banda  azionata  e  guidata  dal  fratello  Luigi..
Oltre  al  Tinti,  delinquente  matricolato,  la  Questura     era  riuscito  a  mettere  le  mani  su  un  altro  tipo  di  delinquente    che  appariva  molto  pericolo,  ed  abitava  nella  porta  accanto  a  quella  del  capo-  banda.
Questo  bel  tipo,  corrispondeva   ad  un  certo  Zaccherini,  uomo  dotato   di  uno  stupefacente    sangue  freddo,  molto    coraggioso   ed  anche  abile  di  coltello.
Si  racconta   che  quando  il  Delegato  Ungari  bussò  alla  porta  del  pericoloso    pregiudicato ,   venne  ad  aprire la  moglie,  un  donnone    alta  e  possente  con  una  massa  di  capelli    neri    come  il  carbone    e  quando  questi  chiese  del  marito,  quella  ridendogli  sul  muso  disse  che  si  era  trasferito  in  via  Mirasole  con   altra  donzella.
Il  poliziotto  non  diede  retta  alle  parole  della  donna  e  fece  perquisire  l’appartamento,  ma non  riuscì  a  trovare  il  pericoloso    uomo  :La  donna  aveva  detto  il  vero,  Zaccherini  si  era  dato  ad  altra  vita    con  femmine  di  tipo  diverso.
Per  la  polizia  ,urgeva  il  suo  arresto,  perchè  si  sospettava  che  il  Zaccherini  in  copia  con  Luigi  Tinti,  avrebbe  venduto  l’anima  al  diavolo  pur  di  fare  evadere  dal  carcere  il  suo  amico  e  capo.
Infatti  dopo  parecchi  appostamenti,     in  posti  dove  si  sapeva  che  il  noto  pregiudicato  bazzicava,  fu    finalmente  arrestato.
L’uomo  di  fiducia  del  Tinti  fu  incatenato  al  dormitorio  pubblico,  mentre  scendeva  dal  letto. 
Si  era  rifugiato  in  quel  posto,  che  riteneva  sicuro,  sotto    il  falso  nome  di  Antonio  Carbonara  di  Firenze,  ma  la  spiata  era  sicura  e  gli  agenti  non  fecero  fatica   a  riconoscerlo  per  il  vero  Zaccherini.
Il  processo   in  corte  d’Assise,  fu  il  trionfo  della  malavita  bolognese.  L’aula  era  gremita   di  folla,  di  uomini  di  malaffare  e  di  donne   dedite  alla  vita  allegra.  Tinti  troneggiava  al  centro  del  gabbione   mentre  la  Giggina   era  assente    perchè  minorenne. 
La  requisitoria  del  Pubblico  Ministero  fu  un  feroce  atto    d’accusa  contro   la  malavita  bolognese  e  il  sottobosco    che     la  proteggeva .
Tinti  fu  condannato  a    parecchi  anni  di  carcere   ed  uscì  oramai  verso  la  cinquantina  ancora  arzillo  e    con  parecchie  idee  per  la  testa.
“Tinti  uscì  dal  carcere  nel  giorno  in  cui  Bologna   festeggiava  il  suo    cinquantesimo   anno   di    liberazione   dal  gioco  e  dalla  dominazione    austriaca,  e  mentre  sulla  sera  la  cittadinanza  prendeva  parte  ai  festeggiamenti,  per  le  vie     Indipendenza   e  Rizzoli,  egli  insieme   ai  suoi   vecchi  e  fedeli  amici   festeggiava  la  sua  liberazione  dal  carcere   in  una  stanza  di  via  Ballotte.
C’era  presente  il  fior  fiore  della  malavita  bolognese,  e  non  mancarono  le  bottiglie  di  champagne  per     allietare   l’originale  convegno   propiziante   l’avvenire   e  alla  fortuna  dei  tatuati.
Terminato  il  convegno  ,il  Tinti  salutò   con  effusione   gli  amici  dicendo  loro   .
“Addio   amici,  ora  mi  do..........  all’aria  libera,  perchè  non  voglio  essere   soggetto  alla   sorveglianza  della  P.S.  “
La  profezia  del  bandito   fu  davvero  azzeccata,  perchè   fu  ricercato  per  mesi  e  mesi,  per  contravvenzione  all’obbligo  di  presenza  del  foglio  dei  vigilanti  e  non  lo  si  trovò  più  fino  al  1919,  quando  dall’Austria   arrivarono  notizie  ,  poco  allegre  sulla  sua  attività.  La  polizia  però      non  cessò  di  darle  la  caccia,  ma  inutilmente,  riuscendo  a  beccare    soltanto  qualche  pesce  piccolo.
“Alle  12, 35   di    ieri  un  pattuglione   di  guardie  della  squadra  mobile  in  perlustrazione  per  varie  osterie  della  città,  capitò  in  quella  condotta  da  Linda  Guermanni  in  via  del  Falcone,  all’angolo   di  via  paglietta,  in  cui   sogliono  darsi  convegno  i  pregiudicati  di  ogni  risma.
Vennero  sorpresi  dei  vigilati     ,ed  ex  vigilanti  che  confabulavano  tra  di  loro.
Ma  essendo  ciò  proibito   furono  tratti  in  arresto  certi  Raffaele  Riguzzi   di  Carlo  di  anni  26   ed  Alberto  Sirotti  fu  Alessandro  di  anni  20.
Questi  era  uscito  ieri  mattina  dal  carcere  ed  era  uno  dei  “  Tatuati”   appartenente  all’associazione  capeggiata  dal  Tinti.
A  proposito  del  Tinti,  quando  questi  uscì  dal  carcere egli  venne  accompagnato  in  Questura  ,  ma  giunto  in  piazza  Vittorio  Emaunele  riuscì  a  fuggire  alla  guardia  che  lo  accompagnava.
Ora   or dunque  ,  egli  è  nuovamente  ricercato  “
Tinti  in  carcere  si  era    specializzato  in   grassazioni   di  altro  tipo,  come   lo  sventramento  di  casseforti  che poi,  in  epoca  successiva,  fece  scuola  a  Bologna.
Dietro  l’insegnamento  di  “esperti  “  del  settore,  Ugo  Tinti  divenne  uno  specialista  di  quest’arte  che  in  Bologna    ebbe  grandi  maestri .
La  banda  capitanata  dallo  stesso  Tinti  ,  rinserrò  le  file  e  dopo  qualche  colpo    guidata  dal fratello  Luigi,  espatriò   in     Germania   dove      cinque  anni  dopo    ,  subito  dopo  un  grosso  furto,  furono    presi  e  ammanettati 
La  notizia  dell’arresto  della  banda,  riprodotta  in  grande  stile  dopo  la  scarcerazione  dei  rimanenti,    giunse  a  Bologna   alla  fine  dell’anno  1913.
“Nel  pomeriggio   di  ieri,  una  inattesa   sensazionale  notizia  perveniva     alla  nostra  Questura,  comunicatale  dal  Console  Italiano  di  Mùlhausen,  nell’Alsazia,  per  mezzo  della  direzione  Generale  della  P.S  ;  notizia  che   faceva   dare  un  sospiro   di  sollievo  al  commissario  Argentieri  della  squadra  mobile.
Ugo  Tinti,  il  famoso  capo  dei  “  tatuati”   scomparso  da  Bologna     era  stato  finalmente  arrestato   dalla   polizia  tedesca,  la  quale  supponeva  bensì   di  essersi  impadronita   di  buona  parte  della  selvaggina,  ma  non  ti  tanto  valore,  quanto    lo  era   effettivamente  per  quella  Italiana,  ed  in  speciale,  per  la  nostra  Questura.
Ricordiamo  brevemente   alcuni  avvenimenti  che  si  svolsero  in  Bologna  all’epoca  del  Tinti.
In  quegli  anni,  Tinti  era   un  giovanetto  di  17  anni,  smilzo  di  statura,  ma  di  corporatura  robusta  e  di  una  audacia  non  comune,  accoppiata   sempre  peraltro   ad  un  senso   di  previdenza  e  di  scaltrezza  che  in  breve  gli   giovarono   per  capeggiare  una  banda  di  giovani  delinquenti  del  Mirasole  e  del  Pratello.
La  Questura  di  Bologna  allora  diretta    dal  delegato  Ungari,   ebbe  non  poco  da  fare  per  tenere  a  freno   il  più  che  era  possibile  la  banda  Tinti,  i  cui  componenti   portavano  tutti  sulle  braccia,   alcuni   anche  sul  petto,  dei  tatuaggi   di  diversa  specie   in  odio  alle  spie  e  alla  polizia.
Uno  dei  tatuaggi,  se  ben  ricordiamo,  più  comuni,  era  il  disegno  d’un  pugnale  confitto  nel  cuore..............Dopo  la  condanna  e  la fuga,  correva  voce  che  il  Tinti e  i  suoi  fidi  tra  cui  Giovanni  Degli  Esposti   detto  “  Zanna”,  Cesare  Marchesini  detto    il  “ Papà”   e Adelmo  Pedrini    detto  il  “  Montanarino  “  assieme  alla  fidatissima  e  innamoratissima  Luigia  Jonice,   fossero  salpati  per  le  Americhe,  invece  erano  emigrati  in  Svizzera  poi  in  Alsazia   dove  sono  stati  arrestati  per  furto “
La  banda    dopo  aver  scorri bandato  per  la  Svizzera   si  era  fermata  in  Alsazia,  dove     si  era  fatta  conoscere  dalla  malavita  locale,  per  avere  svaligiato  alcune  casseforti,  aperte  con  perizia  e  maestria.
Riproduciamo  le  fotografie  degli  svaligiatori   di  casseforti,  veri  maestri  in  questo  ramo,  arrestati  dalla  polizia  germanica  e  riconosciuti  per  i  pericolosi  latitanti  Ugo  Tinti,  Cesare  Marchesini,  Giovanni  Degli  Esposti,  Adelmo  Pedrini   e  Luigia  Jonici  ,  ricercati  da  molto  tempo  dalla  questura  di  Bologna
Da Mùltansen,  dove  la  banda  dei  tatuati,  della  quale  era   il  capo  Tinti,  venne  arrestata  dal  giudice  istruttore  imperiale,  che  ha  trasmesso  le  fotografie   dei  delinquenti,  imputati  di  vari  furti,  di  casseforti,  al  Console  Germanico  in  Italia   “.
All’atto  della  cattura  in  terra  tedesca,     i  componenti  della  banda  erano  in  possesso  di  documenti  con  foto  e  nomi  falsi   e  si  erano  qualificati  come:
Marchesi  (  Pietro  Randoboschi)
Tinti  (  Francesco  Liverani  )
Degli  Esposti  (  Giovanni   Aldi)
Solo  la  Jodice      non  aveva  documenti  falsi   e  si  qualificò  con  le  proprie  generalità.
Un    fatto  curioso,  riportato  dalla polizia  tedesca,  fu  quando  sottoposero  Ugo  Tinti,  al  confronto    con  il  resto  della  banda.  Uno  di  fronte  all’altro,  presero  a  parlare  una  lingua  incomprensibile  per  gli  agenti  tedeschi  ,   e     Tinti   raccontò  ,  dopo  parecchio   tempo,  che  il  confronto  si  svolse  alla  Bolognese,  nell’idioma  più    conosciuto  da  tutti .
Altro  particolare   ,  fu  quando  gli  agenti  della  stazione  di  polizia   di  Mùlchansen   sottoposero  il  capo  al    rito  della  foto  segnaletica.
Tinti  sotto     il  riflettori  della  ripresa,  presa  a  torcere  il  naso  e  la  bocca    cercando  di    non  farsi  riconoscere,  ma    gli  agenti  tedeschi  tennero  duro  e   andarono  avanti  a  fotografarlo  fintanto    che   il  famoso  bandito  non  si   fosse  messo    calmo  e  senza     torcimenti  della  bocca.
L’intera  banda  fu  ricondotta   a  Bologna  in  manette,  e  del   famoso  Ugo  Tinti  non  si  seppe  più  nulla.