Da ragazzo Bologna era diversa da oggi. Mi piace ricordarla come allora prima che la memoria oscuri le immagini e rubi gli scorci più belli di una Bologna della mia infanzia.
Bologna aveva una Funivia, e il canale che tagliava in due la città.
Bologna aveva una squadra di calcio che aveva vinto sette scudetti e uno Stadio tra più belli d’Italia. Di quella Bologna leggerete qui.
Nonricordolatestatagiornalistica,masono sicurocheungiornalemilaneseimboccatodachinonsisa,unbelgiornovennefuoriconlanotiziacheilnuovocinemaEliseoinviaOreficifacevapartediunasocietàimmobiliareche aveva per socio ilsindacoGiuseppeDozza.
LanotiziascatenòunfinimondoegiunsepersinosuibanchidelConsiglioComunaleDove sispenseimmediatamentenonostante una minoranzamoltoagguerritaedalla linguatagliente,capitanadaunconsiglierechenonperdevauncolpoperpuntareilditocontrolamaggioranzaguidataappuntodalSindaco.
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Con la sua vastasalache coprivatuttoiltrattochepartivadaviaOreficieraggiungevalastradinadiviadelMercatodimezzo,arricchivainsfarzoebellezzalaricezionedellesalecinematografichebolognesidopolachiusuradelvecchioSavoiaubicatoinviaRizzoli , tanto che ilgiornodell’inaugurazionelacodadegli spettatori arrivòfinoametàstrada
L’Eliseo,poiAmbasciatoriperannichiusegli storici battenti nobilitati,neigiorniinvernalidallavecchiaecarafiguradidonMarellache siaccucciavanegliangoliprividispifferidelportonedelvecchiocinema quando la temperatura era particolarmente rigida .
Aricordareifastidellussuosoritrovorimaseper anni soltantoladiciturainaltosullaparete , quellainizialedi“CinemaEliseo” , rinata a nuova vita aigiorninostri con le mura dellala anticasalacinematografica ora adibite a libreria..
Sono i primi giorni di Marzo , tra poco arriverà la primavera la stagione più bella e tanto attesa . Rifioriranno i colori, gli alberi prenderanno vita ,i rami spogli si vestiranno di foglie e di colori e l’aria sarà profumata come la vita dei monti . La neve è andata via da poco, ma la valle è cosparsa di nebbia spinta su dalla grande città come se laggiù fosse soffiata da mille bocche .
Oggi, secondo giorno di Marzo, è una mattina nebbiosa e fredda. L’aria punge la carne come tanti aghi.
Ha piovuto come Dio comanda a catinelle per giorni e giorni e la terra profuma di odori strani. Poi il tempo, improvvisamente si è rimesso in carreggiata,una striscia di sole, e nuvole basse ed infine la nebbia .
Da lontano si ode il rombo del cannone e il dirompere dei bombardamenti su Torino distrutta per una sua buona metà.
Quanto finirà mai questa inutile e tragica guerra .
Druento è un paese che è un buco nel mondo, uno sputo di terra in provincia di Torino.
:E’ il paese dove sono nato dove cammino, il rifugio dopo il girovagare per il mondo .
Ora sono vecchio e stanco e la vita mi sta sfuggendo dalle mani anche se ho nemmeno quarant’anni e Druento mi ha sempre accolto con applausi e insulti . Sono stato per anni il personaggio più popolare di questo borgo lontano dalle metropoli che metà degli italiani nemmeno conosce .
I paesani mi indicavano con il dito alzato .
- Michelone campione dei campioni -
Le marmocchie le ragazzole mi guardavano con ammirazione e sorridevano di nascosto ai fidanzati ai genitori :Ho visto il mondo,il meglio e il peggio dell’esistenza degli uomini . L’Argentina la Germania i mangia patate,l'Inghilterra e l’America grande come il mondo .
Oggi esco dalla sede del Municipio e vado verso casa
Sono le dieci di sera , un lampione , l’unico acceso della piazza di sbilenco illumina un angolo della piazza . Mi alzo il bavero della giacca e cammino a testa bassa .
Due tipi sbucano dalla nebbia come fantasmi che si sono materializzati dal niente .
Sono due tipi strani, mai visti in paese:, forse vengono da fuori , forse sono figli di una buona donna che mi chiedono un autografo .
Macché sono 10 anni che non salgo sul ring e questi due tipi sconosciuti non mi conosceranno di sicuro .
- sei Bonaglia ?” - mi apostrofa uno
Mi fermo e ho il tempo di osservarli.
Chi ha parlato e più piccolo di me,di una spanna. Ha la barba lunga di un colore che sembra dipinto con la peluria che appare incolta più corta sotto il naso .
Porta un cappello che gli copre meta della massa di capelli di un rosso sbiadito come la barba. Gli occhi cattivi con uno sguardo che ha qualcosa di strano, di forestiero, forse slavo, Ha occhi freddi vendicativi portatori di disgrazie, come i tipi che sono in lotta con il mondo . Nel pugilato , nel boxing ne trovi ad ogni angolo del mondo , balordi in cerca di un grammo di notorietà e in cerca di un applauso che non viene mai .
Il tipo ha le mani in tasta dentro un giaccone di stoffa grezza e poco pulita .
Il suo compagno è un perticone magro con le ossa che le spuntano da tutte le parti .
Non dice una parola forse è muto, forse non ci sta con la testa solamente scuote il capo coperto da un berretto di lana e apre la bocca in un mezzo sorriso che sa di idiozia .
Guardo l’altro quello che mi ha chiesto chi sono .
- Bonaglia il campione . - rispondo
Il bassotto ride, spalancando una bocca troppo grande per quel viso quadrato a forma di finestra .
Campione dei miei coglioni- ribatte ridendo di nuovo .
Mi viene la mosca al naso, mi prudono le mani e stringo i pugni per preparare uno di quei colpi che ha steso tanti campioni sul ring .
- Sei condannato a morte . Sei uno sporco fascista torturatore di compagni !
Le parole sono come sassi che rotolano dalla montagna , sono come pietre angolate che ti colpiscono e mi fanno male perchè , a differenza di tante persone che consoco non ho mai toccato un prigioniero, ne sputato per terra al loro passaggio .
Sono sempre stato abituato a picchiare sul ring , a battermi con tipi alla pari, mai contro persone che non possono difendersi . E’ da vigliacchi .
Dite quello che volete , sparate bugie, ma non andate mai in giro a raccontare che Michele Bonaglia è un vigliacco che rompe le ossa a dei poveri Cristi indifesi .
Le ossa le spaccavo agli avversari , per questo i giornalisti hanno scritto che sono uno “Spaccaossa” uno che nella battaglia, nella lotta, non va per il sottile .
Quel tipo con la faccia da slavo, ghigna ancora le labbra e improvvisamente come se attendesse un ordine misterioso estrae dalla tasca una specie di cannone ,un revolver antidiluviano, vecchio come le montagne .Come un prestigiatore , la mano che prima era vuota , chiusa nella tasca ora appare armata da quell’arma sputa fuoco che tiene in mano .Ancora un ghigno poi il dito tozzo spinge con forza sul grilletto ed escono in fila indiana tre pallottole . La prima mi penetra nella spalla, vicino al collo, la seconda più in basso e la terza in testa a metà della fronte .
Il rumore dei colpi è così forte che i due quasi si prendono paura.
L’ultima cosa che vedo è la mano che impugnava la pistola che trema e gli occhi del bassotto che si riempiono di felicità.
Nell’attimo che sto per cadere, una folata di vento mi asciuga una lacrime e .ho l’impressione che la mano di mia figlia mi accarezzi e tenta di fermare il sangue che esce dalle ferite .
I due corrono lontano, i loro passi veloci sfidano la nebbia .
Io sono a terra , respiro forte, cerca d aggrapparmi alla vita, per tenerla con me il più possibile , non voglio morire , ho una famiglia sono giovane , amo la vita . Accidenti a quel scemo che mi ha sparato, che c’entra lui con me, non ci siamo mai visti, non lo conosco. Come si permette di sparare a uno che vede per la prima volta che non sa nemmeno che ho fatto nella vita .
Solo perché indosso una camicia nera ? Accidenti a te .Poi quella frase stupida e vuota
“Sei condannato a morte
Ma cavolo, chi mi ha giudicato? Chi mi ha processato? Cosa sanno di me ?
Non mi piace morire così con la nebbia il freddo, ora che il tempo si è messo al bello . Non voglio lasciare la mia famiglia, mia figlia, la casa la donna che ho portato all’altare . Accidenti a loro .
Nessuno viene ad aiutarmi a sorreggermi : Qualcuno deve portarmi all’ospedale è un dovere , ma rimango solo nel vuoto di un giorno di nebbia .
Osservo il sangue che mi esce da tutte le parti meravigliandomi di averne così tanto .
La testa mi fa un male del diavolo, un dolore che non è quello dei pugni ,ma che si espande da tutte le parti e mi toglie il respiro .
Dove sarà mia moglie? Mia figlia? Gli amici? Perché mi lasciate solo, aiutatemi . Con il corpo steso a terra gli occhi rivolti al cielo in un baleno la mia vita, la mia sporca vita mi passa davanti agli occhi nitida , precisa con i colori stampati nel cielo . Michele Bonaglia, lo “spacca sassi” il campione , il pugile mai dome .
Il ring , le vittorie , i viaggi , le truffe le delusioni , la felicità , tutto mi si espande nel cervello mescolato al dolore, alla morte che mi sta stringendo a se .
Non è così che volevo chiudere il conto con la mia vita, avrei preferito chiudere gli occhi sul ring dopo una sfuriata di pugni presi e dati ,come muoiono i campioni . Questa chiusura della vita rappresenta un quadro dei più brutti che un pittore possa dipingere .
Mi pare di vederli i titoli dei giornali domani .
“Michele Bonaglia freddato da due sconosciuti davanti a casa
Michele Bonaglia ex campione ucciso per sbaglio
“L’ex campione Michele Bonaglia freddato da due partigiani
Partigiani ? Ma che cavolo scrivono?
Quelli sono banditi che amano sparare tanto per fare qualcosa .
Partigiani? Ma che c’entro io con loro?
Due faccie da galera con il revolver in tasca che vanno in giro a sparare alle persone che hanno famiglia e che si fanno gli affari suoi .
Due persone che si presentano e nemmeno ti lasciano il tempo di replicare di parlare di capire il perché ti puntano un cannone in faccia .
Ma che scherziamo?
Va bene che siamo in guerra , ma si spara al fronte non per la strada a persone che camminano in santa pace.
Dall’osteria che è a pochi passi non esce nessuno, la paura degli spari ha tagliato le gambe a quelli che vociavano la dentro .
Nessuno viene ad aiutarmi a sollevarmi il capo, a togliermi da questa posizione ad asciugarmi il sangue che mi esca da tutti i buchi.
Sento la vita che mi lascia . Il corpo è freddo , il sangue continua ad uscire , e nessuno viene a soccorrermi .Nemmeno un volto di persona si china su di me . nemmeno un prete che mi benedice prima di salire in cielo . Ecco un rombo di un cannone , lontano che rompe il silenzio. E’ il tuono della guerra che si combatte lontano, ma anche vicino, dalle mie parti su di me .
Il freddo ora è intenso , sono leggero senza più nulla addosso . Forse sto salendo il cielo, ma da lontano odo il fragore della folla attorno al ring che grida il mio nome che batte le mani che urla e grida .
Campione!
Campione !
E l’arbitro che mi alza la mano che mi indica campione .
Si li sento grazie per ricordami un soffio della mia sporca e gloriosa vita .
Ogni volta che passo da Piazza Minghetti, mi fermo a guardare dove a ridosso della siepe che delimita il giardinetto, c’era, e c’è ancora la fermata dell’autobus che porta a San Ruffillo.
Una volta era il tram , il n° 13 e faceva appunto capolinea quasi sotto il monumento al buon Minghetti che saluta con il cappello in mano .
Nel freddo mattino del 3 Novembre 1963, l’ ultimo tram a fili elettrici di Bologna partì appunto da quel capolinea per dirigersi verso la periferia lungo la direttrice Santo Stefano, via Murri (allora via Toscana), poi Chiesa Nuova e San Ruffillo ma questa volta, come un sogno che svanisce alle prime luci dell’alba, non tornò più .
L’Azienda tranviaria aveva inteso sostituire il vecchio mezzo di locomozione a manovella, con un servizio più moderno e adeguato ai tempi, un mezzo maggiormente veloce, con maggior movimento sulle strada e, si pensava, molto più rapido
Lo salutò una folla di curiosi , qualcuno con il “ magone” che usciva dall’espressione triste dello sguardo, molti curiosi e molte autorità .
L’ultimo tram era li immobile, fermo sulle rotaie ancora in funzione, vuoto come non avesse un anima e neppure un cuore, con un aspetto triste, anche se la carrozzeria era stata tirata a lucido, pulita e fresca, quasi che fosse stata riverniciata di fresco.
Qualche vecchio tranviere che aveva passato tutta la vita a girare la manovella, con la mano riparata da una metà di un guanto, osservava la scena con una espressione assorta, quasi trasognata o, forse , delusa .
Il tram è stato uno dei più bei ricordi della mia infanzia, dei miei anni giovanili .
Quando abitavo a S Ruffillo, il tramvai che veniva dal centro, si fermava come capolinea prima del ponte, a ridosso di una antica villa, credo si chiamasse “ villa Piana” e li attendeva l’orario per ripartire nel solito tratto. La prima fermata la faceva alle scuole Tambroni, poi alla località Frasca e via verso il centro. A Chiesa Nuova, in certi giorni della settimana, veniva agganciata una carrozza supplementare che portava la folla fino al centro .
La storia del tram a Bologna inizia nel lontano 1880, quando una società Belga prese in appalto il servizio e dal 15 settembre di quell’ anno, iniziarono a circolare.
Il tratto di marcia della sperimentazione tranviaria era il tratto da Piazza Vittorio Emanuele , ora piazza Maggiore, alla Stazione, un tragitto che si percorreva più velocemente a piedi che con il nuovo mezzo e i suoi stanchi cavalli .
Infatti i tram erano trainati da patetici ronzini, mal nutriti , con le ossa sporgenti tanto è vero che la popolazione prese a protestare vivamente sulla sorte di questi poveri animali che venivano additati alla pietà dei bolognesi. Ci furono infinite protesta alla società Belga tanto è vero che il direttore fu più volte minacciato di brutto e per due volte, poiché non se ne dava per inteso, si prese una bella razione di bastonate dalla popolazione
Capitavano tra l’altro anche vari inconvenienti , come quel pomeriggio che uno dei due cavalli da tiro, “ scioperasse” forse per fame, forse per sfinimento e si inginocchiò sul centro della strada mentre il conducente inveiva con frasi non davvero concilianti .
Un altro inconveniente , era che le ruote uscivano dagli “improvvisati” binari non ancora ben fissati nella carreggiata , ci voleva una buona dose di pazienza per farli rientrare .
A far concorrenza ai tram trainati dai cavalli, vennero gli Omnibus, una specie di diligenza sempre trainata da cavalli, ma molto più veloce e con un servizio rapido .
Bologna era divenuta una città “sperimentale “ per questo mezzo di locomozione e quando nel 1881 tentò di soppiantare il traino dei tram a cavallo con la nuova carrozza a vapore dal nome francese, i bolognesi si misero a ridere di gusto.
I “ cinni” o meglio , i “Birichini “ si divertivano a sabotare questi nuovi mezzi di trasporto del pubblico, con stramberie tutte nuovo , ideate da menti geniali fervide e sagaci. Nelle rotaie appoggiare sul terreno, senza mezzi di fissazione, venivano sbarrate o interrotte con qualche diavoleria, inventata li per li .
Finalmente con l’evento dell’elettricità , anche il servizio tranviario si modificò.
La prima vettura tranviaria a trazione elettrica, azionata dalla corrente vide la luce nel lontano 1904 .
Gli inizi , anche qui non furono molto felici . I bolognesi temevano che sulla piattaforma o seduti nelle panche, si sentissero troppo le scariche elettriche che venivano dal contatto con i fili e ci volle molto tempo per far capire ai viaggiatori che il pericolo non esisteva per niente.
Con l’introduzione dei tram a corrente elettrica, la società si trasformò . Si formò il “parco” tram fuori porta Galliera in località “Zucca” dove terminavano tutte le linee, si fecero corsi per il personale conduttore e bigliettaio e si usò una divisa propria che il personale doveva usare in servizio.
Lentamente il “servizio urbano “ si espanse . Dal centro le rotaie tramviarie incassate nel terreno iniziarono a condurre verso la periferia .
Il primo tratto lungo , fu Bologna centro - Casalecchio.
Questo avvenne nel 1907 quando l’ allora circondario casalecchiese era servito dal famoso
“ Vaporino “ che faceva capolinea in piazza Malpighi e che fu sostituito dalle rotaie del tram, seguito quasi a ruota dal suo “gemello” “ Il Vaporino 2” che portava la folla da Castel S Pietro a Bologna facendo tappa alla porta Maggiore.
Il tram a trazione elettrica divenne la novità che trasformò i percorsi e le abitudini di tutti i bolognesi .
Da “ cinni” ci aggrappavamo all’esterno dei veicoli nelle parti sporgenti, quasi sempre sul predellino, pronti a scendere veloci quando il tram si fermava e il bigliettaio cercava di raggiungerci per una buona e salutare ramanzina Del vecchio tram mi affascinava la grande ruota che era fissa alla piattaforma anteriore e che serviva da freno a mano e, la campanella di avviso , che era in una sporgenza. che usciva vicino al posto di marcia del guidatore il quale l’azionava con un colpo di piede annunciando l’avvicinarsi del mezzo, avviso quasi sempre indirizzato ai possessori di carri trainati con i cavalli che occupavano la carreggiata delle rotaie ..
In molte zone della città, specie dove il tram curvava, capitava che le “rotaie” o per cedimento del terreno adiacente o per la messa in opera troppo frettolosa, emergevano dal suolo stradale di qualche centimetro ed era il pericolo maggiore per le biciclette, i furgoncini e le moto tanto che vi era una tratto di rotaia fuori porta Galliera , verso Casaralta , che era conosciuta come “la rotaia assassina” per i tanti incidenti che causava.
Un tragico esempio della pericolosità di queste rotaie, fù in una edizione della Mille Miglia quando, a porta Zamboni, la pioggia e le rotaie più alte del manto stradale, fece sbandare l’auto di un concorrente causando una carneficina di morti e feriti .
Una altra innovazione si vide in tempo di guerra quando molto personale femminile sostituì quello maschile che era in larga parte al fronte, abituando così i bolognesi a donne che guidavano i colossi o ne assumevano il ruolo di bigliettaie.
Negli anni cinquanta- sessanta , anche il tram elettrico fu sostituito dai “Bus” e più avanti dagli “autobus”.
Tuttavia il ricordo del tram non è scomparso. E di tanto in tanto quando ci rechiamo in altre città come Milano, Roma e si sale sulle vetture che sembrano uscite da epoche che sono solo ricordi, una strana e dolce malinconia ci prende la gola.
Agli inizi del secolo passato, attorno al primo decennio, negli anni appena all’inizio del novecento, la Questura di Bologna era organizzata con un gruppo di funzionari di grandissima esperienza in fatti criminosi e molto temuta dalla teppaglia che si destreggiava in furti e rapine di ogni tipo.
Il capo della squadra investigativa, che era stato chiamato a Bologna per mettere fine all’espandersi di alcune bande criminali capeggiate da uomini che sprezzavano il pericolo, era un uomo alto massiccio, molto attivo nel suo lavoro e subito fu indicato dalle bande, come il pericolo pubblico numero uno per i malavitosi.
Questo signore si chiamava Avv. Ungari ed era un tipo che andava per le spicce con rapidità ed energia.
Alla prima conferenza stampa, si presentò dichiarando chiaro ed esplicitamente che seppure Bologna rappresentava una fogna di topi e pure se questi guazzavano in ogni antro puzzolente della città, lui li avrebbe assediati e annientati.
“ Promessa,- aggiunse - E quanto io prometto, signori, mantengo.
Il delegato Ungari formò all’uopo una squadra fatta su misura per questo incarico con il suo braccio destro , il maresciallo Zanini e una squadra composta dal brigadiere Ferreri , Algliati e da altri agenti.
Il maresciallo Zanini era il punto fermo per il nuovo comandante, essendo questi nato e vissuto in città e molto conosciuto tra le squadracce di banditelli e ladruncoli che furoreggiavano in città e fuori le mura .
La Bologna ladresca di quei tempi, non era composta soltanto di meschini tagliaborse, di pollaioli , di bellimbusti , di trafficoni, ma vi era anche del solido .
Infatti si era andata formando all’ombra di questi ladruncoli da quattro soldi, una banda vera e propria che amava definirsi, alla moda Francese della famigerata “ Banda Bonnot” , la “ Banda dei tatuati.
Questa combriccola di vecchi pregiudicati, “ votati al furto, allo scasso e se occorreva all’assassinio, usavano il vezzo di tatuarsi sul braccio marchi con scritte , che usavano come strofa per il loro inno
“Viva i ladri di ogni tipo :
Viva la ladreria:
Abbasso e morte alla polizia “
I capi di questa banda che incuta terrore e paura, erano i due fratelli Tinti : uno, Ugo il capo e l’altro Luigi di un gradino più basso.
Ugo Tinti , detto anche, fra i tanti nomignoli che gli avevano affibbiato, “L’ortolano”, per via del mestiere del padre che coltivava un appezzamento di terreno adibito a orto, era nativo di via del Borgo, una zona, a quei tempi, frequentata da persone malavitose, come del resto altre stradine i vicoli della vecchia Bologna ; come il Borghetto di Santa Caterina, Borgo Polese, dove si installarono le prime case chiuse, il Pratello, la Fontanina, stradine come via Mirasole, Solferino e Paglietta.
Ugo Tinti iniziò molto presto la carriera del bandito e in giovane età era già un affezionato “ cliente “ della Questura di Bologna, che aprirono il fascicolo indirizzato a suo nome quanto aveva 15 anni. Preso e sbattuto in carcere, nel carcere minorile, da lì iniziò a creare la sua carriera di bandito .
Uscito ,ancora minorenne, in combutta con il fratello Luigi e amici di galera, mise in piedi una vera banda che prese poi il nome di “ Banda dei tatuati” o “ Banda Tinti “ a seconda come più piaceva chiamarli.
Il gruppo era composto dai nomi più conosciuti in città come elementi criminali, quali ad esempio Adelmo Pedrini gaglioffo di prima lega, Giovanni degli Esposti, ed ancora, il coraggioso Cesare Marchesini che non si tirava indietro nemmeno davanti ad un fucile puntato, meglio conosciuto nei registri della Questura come il “ Papà dei ladri “
Più avanti quando la banda si era consolidata e il suo nome faceva tremare mezza Bologna, Tinti fece entrare nel gruppo una donna, la sua amante : la bellissima e smagliante Luigina , o Nina o anche Giggetta.
Questa bellissima ragazza, una vera immagine d’artista che tutta Bologna invidiava per procacità e avvenenza, era un giovane cerbiatta, alta, dalle movente flessibili, lunghi capelli corvini e gambe da far girare la testa a tutti gli uomini non solo di Bologna.
“ Se fosse vissuta cresciuta in un altro ambiente, in una società di persone cosiddette perbene, vestita come è uso in certi ambienti e truccata in modo sapiente, ben pulita , la bella Giggetta sarebbe stata la più bella donna del mondo, parola di chi se ne intende “ scriveva un cronista.
Nel Pratello, dove aveva abitato parecchi anni, la chiamavano “ La Lina Cavalieri di Bologna “ per via di una certa somiglianza con la famosa attrice- cantante.
Di cognome si chiamava Jodice e dicevano che fosse il frutto di un amore stregato tra una cameriera e un grosso signore di fuori Bologna.
Il delegato Ungari , che da tempo era sulle tracce di Tinti per vari grossi furti commessi in Bologna e fuori, prese a pedinarla, venendo così a sapere che la bella Giggetta amoreggiava con il Tinti Ugo non LuigiUgo Tinti a quel tempo, siamo attorno al 1907-8 , era già un ladro molto conosciuto. Già uomo fatto, sui vent’anni, fisico asciutto, bella presenza, dai lineamenti molto marcati, grandi baffi a manubrio, aveva già portato a termine grosse rapine che gli valsero grande notorietà nell’ambiente.
Nel 1908, dopo un lungo pedinamento eseguito dal fido Zanini, si seppe che la Giggetta usava entrare spesso in un casamento in via Santa Croce, una strada molta vicina al Pratello. In quel casamento, abitava un noto pregiudicato, un elemento della banda dei tatuati , un certo Carlo Zaccherini .
Tinti da tempo si era messo in competizione con il Delegato e lo stuzzicava con bigliettini a carattere di sfida che Ungari lasciava correre.
“Caro delegato, perchè non mi vieni a prendere ? l’aspetto domani al tal posto !”.
In fondo come firma, Tinti marchiava il foglio con il suo tatuaggio e con un indirizzo, ovviamente falso.
Dopo parecchie settimane , il delegato era convinto di aver trovato finalmente, il nascondiglio di Ugo Tinti perché tenendo d’occhio la bella Nina, il poliziotto notò che appena la ragazza entrava nel portone c’era un certo movimento ad una delle finestre del primo piano e al poliziotto parve di notare uno dei due fratelli Tinti.
“Giorni fa, la Questura ebbe notizia certa della segreta dimora del Tinti e dette incarico al Delegato Ungari di fare pratiche opportune per arrestarlo
Il Delegato dopo indagini accurate pervenne a sapere che il Tinti si nascondeva appunto nella casa al numero 9 di via Santa croce e che amici fidati facevano la guardia per avvertirlo possibile sopravvenire degli agenti per arrestarlo “
Impresa non facile, perchè Tinti aveva scelto uno stabile, occupato da 39 famiglie, molte delle quali era di infima fama e molti stavano dalla parte del bandito, per interesse o per amicizia ed erano prontissimi a proteggerlo e farlo fuggire.
Tra l’altro il casamento, sia sulla parte frontale che in quella posteriore, aveva dei porticati, tipo “ Androne “ dove era facile nascondersi o fuggire senza essere visti. Inoltre era situato sul canale Reno da un lato e via del Pratello dall’altro, ubicazione che si prestava benissimo come fuga da ambo le parti.
Insomma: ad una osservazione esterna, c’erano tutte le caratteristiche di un fortino ben protetto e con visibilità dall’interno all’esterno di ampia estensione.
Il delegato Ungari, cercò subito di individuare l’esatto appartamento dov’era nascosto il pregiudicato e a forza di pensarci, trovò la soluzione giusta.
Nei suoi appostamenti, aveva notato che uno spazzino in divisa, depositava il carretto con l’immondizia davanti allo stabile dalla parte di via Santa Croce, poi passava di casa in casa a raccogliere il “ rusco”, cioè il pattume.
Così Ungari prese un poliziotto , lo vestì da spazzino e lo mandò a bussare porta dopo porta, per scoprire il rifugio di Tinti.
Ci vollero quattro giorni, finché il finto spazzino individuasse il nascondiglio del ricercato “Per quattro mattine di seguito, l’agente travestito da spazzuraio, si recò nella famosa casa per chiedere agli inquilini se avevano immondizie da portare via, Aveva il suo carretto e la sua pattumiera da spazzaturaio autentico e giunse a capire che il Tinti abitava al n. 14, al secondo piano insieme alla sua amante “
Il delegato Ungaro o Ungari a secondo dei cronisti, venuto a conoscenza dell’ esatto covo del bandito, preparò un piano molto accurato per la cattura, disponendo per precauzione, l’accerchiamento dello stabile, cercando di chiudere gli accessi alle cantine e ogni via d’uscita dagli androni, che portavano lungo labirintici percorsi alla sponda del canale di Reno.
Tinti, però da uomo accorto e furbo, aveva annusato qualcosa di strano .
Primo la figura del spazzino che si guardava intorno con troppa circospezione chiedendo alle porte, notizie sugli abitanti, poi il suo fiuto da uomo braccato che gli suggeriva il doppio di attenzione.
Infatti la mattina dopo, all’alba, Ugo ,il capo dei “ Tatuati “ mandò in strada la sua bella con l’intento di vedere se c’era qualcosa di sospetto.
Raccontano che la bella Giggetta passeggiasse alle prime luci del mattino per Santa Croce sculettando e alzando la gonna sino alle ginocchia, nell’intento di destare lo sguardo di qualcuno appostato, e il trucco gli riuscì.
Un paio di agenti, non riuscirono a trattenersi nel scrutare le forme della bellissima ragazza e misero fuori la testa dal loro nascondiglio.
La Giggetta li notò e subito ragguagliò il Tinti del pericolo e dell’agguato che gli stavano tendendo.
Intanto che la bella Giggetta , o Nina, raccontava a Ugo, come erano disposti gli agenti, il delegato Ungari con i fidi Zanini, Ferretti e Aglietti erano arrivati al porticato e si preparavano a salire le scale del portone contrassegnato con il numero 14.
Erano le 10,20 del mattino. Tinti armi alla mano era pronto a difendersi a costo della vita, con a fianco la sua donna che preparava le armi.
Alle 10,30, Ungari , che aveva chiesto rinforzi, notò un grappolo di agenti in divisa che accerchiava il casamento disponendosi in misura da chiudere ogni uscita .
Il capo della banda, vista la mala parata, e constatando che ogni via di fuga era bloccata, pensò di uscire dall’accerchiamento nel classico modo degli evasi dal carcere : annodò alcuni teli, li dispose fuori dalla finestra e tentò di calarsi di sotto.
“Ma sia che la finestra, fosse troppo alta, o che lo avessero scorto le guardie, fatto sta che Tinti dimise il proposito e ritornò all’interno della casa “
Fuori, sul pianerottolo, il delegato e i suoi uomini intimarono la resa del Tinti.
“Sei circondato , non cercare di resistere, non puoi scappare “
Tinti tentò di parlamentare , mente la sua donna, in piedi sulla finestra, furiosa e inviperita, alzando la gonna in segno di schermo insultava le guardie e gli agenti con grida oscene e con gli occhi fuori dalla testa, e nello stessa maniera incitava la gente e il popolo di via Santa Croce a ribellarsi alle forze di polizia, ed aiutare gli uomini della banda alla fuga .
“Le invettive della giovanetta, si sentivano persino nella via del Pratello e tutte le donne della strada ascoltavano le sue grida “
La trattativa duro pochi minuti. Il poliziotto sentendosi forte di uomini e di mezzi, minacciò di entrare in casa con la forza , abbattendo la porta, mentre gli uomini della banda cercavano di persuadere il Tinti alla resa.
Era ,ovviamente, una scena da film americano, di quelli a tinte forti.
Dalla strada gli agenti che ogni tanto sparavano qualche colpo a scopo intimidatorio, dall’altra sponda sia le grida e le invettive della bella Giggetta, che la risposta ad alcuni spari, creavano uno scenario davvero inusitato .
“Le genti agglomeratasi nella via pel timore che succedesse qualche cosa di più serio, scappava “
Le trattative continuavano sempre più minacciose , con spari alternati tra le forze di polizia e i banditi.
“Nel corridoio vicino all’uscio del numero 14, c’è una finestra di fronte alla quale sta l’altra della cucina del Tinti : da queste due finestre succede un dialogo fra le guardie e il capo-banda : quando questi ad un dato momento, infastidito , si ritira all’interno e si ode un colpo di arma da fuoco.
Alla denotazione succede il silenzio : le guardie dubitano che il Tinti abbia ucciso l’amante. Lo chiamano di nuovo ed egli si affaccia alla finestra.
La scena sembra diventare tragica.”
Tinti indietreggia, spara altri colpi, ma dall’esterno la voce possente del delegato lo intima per l’ennesima volta di arrendersi.
Il bandito capisce che per lui non vi è più scampo, tenta un diversivo, butta la pistola dalla finestra e dice di arrendersi.
“Il Tinti consegna l’arma, ma non apre e gli agenti temono che abbia in casa altre armi.
Il Delegato Ungari, manda a prendere un martello per fare abbattere la porta nel tempo stesso che gli agenti coi revolver puntati intimano al Tinti di non allontanarsi dalla finestra.
In questo frattempo sopraggiunge il Commissario Cav Campanella della sezione di Ponente mandato in rinforzo dal Questore, ed allora il Tinti si arrende ed è finalmente arrestato.
Unitamente al Tinti, nella stessa camera è arrestata l’amante e certo Torre Enrico di 24 anni dimorante in via del Pratello 65 quale contravventore alla vigilanza speciale .
Nell’abitazione dove era nascosto il Tinti fu rinvenuta della refurtiva rubata in qualche posto compreso una “ bicicletta quale compendio di un furto di sette biciclette rubate alla Montagnola al signor Teofilo Ruffini. Furono pure sequestrate dieci fiasche di vino, tre di conserva, quattro cappelli di feltro, un vestito, una blouse, un ciondolino d’oro e altri piccoli oggetti.”
Come si evince dalle note del verbale, non è che la banda occultasse dei tesori, o fosse in possesso di ingenti somme, a meno che , il grosso dei bottini fosse nascosto da altra parte : tuttavia all’atto dell’arresto , il famoso bandito risultava , da quello che aveva sottomano, un povero pollaiolo.
Il cronista nella elencazione di quello che il “ covo “ teneva in bella vista.
“Un particolare ; il terzetto degli arrestati si stava preparando per il pranzo di mezzogiorno e da buon bolognese sul tavolo di cucina vi era già pronta una pentola per il brodo, un tacchino che chi sa da che provenienza veniva.
La cronaca dell’arresto si sofferma sui due amanti e sopratutto sulla bella ragazza ammirata e desiderata da mezza Bologna.
“Questa splendida figliola, ammirata nata e cresciuta quasi da sola nel sottobosco della malavita, oltre ad essere la compagna fedele ed inseparabile del Tinti, all’atto dell’arresto si rivelò una vera belva.
Il delegato Ungaro si prese un forte calcio negli stinchi ed altri agenti accorsi furono inondati di sputi e graffi, sputi che uscivano dalla bella bocca della Giggetta e dalle unghie affilate delle sua mani.
In carcere, in manette e incatenata, cantava una canzone appropriata all’amante.
Messo in carcere Ugo Tinti se la rideva pensando al resto della banda che era risultata lontana dal punto della cattura, resto della banda azionata e guidata dal fratello Luigi..
Oltre al Tinti, delinquente matricolato, la Questura era riuscito a mettere le mani su un altro tipo di delinquente che appariva molto pericolo, ed abitava nella porta accanto a quella del capo- banda.
Questo bel tipo, corrispondeva ad un certo Zaccherini, uomo dotato di uno stupefacente sangue freddo, molto coraggioso ed anche abile di coltello.
Si racconta che quando il Delegato Ungari bussò alla porta del pericoloso pregiudicato , venne ad aprire la moglie, un donnone alta e possente con una massa di capelli neri come il carbone e quando questi chiese del marito, quella ridendogli sul muso disse che si era trasferito in via Mirasole con altra donzella.
Il poliziotto non diede retta alle parole della donna e fece perquisire l’appartamento, ma non riuscì a trovare il pericoloso uomo :La donna aveva detto il vero, Zaccherini si era dato ad altra vita con femmine di tipo diverso.
Per la polizia ,urgeva il suo arresto, perchè si sospettava che il Zaccherini in copia con Luigi Tinti, avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di fare evadere dal carcere il suo amico e capo.
Infatti dopo parecchi appostamenti, in posti dove si sapeva che il noto pregiudicato bazzicava, fu finalmente arrestato.
L’uomo di fiducia del Tinti fu incatenato al dormitorio pubblico, mentre scendeva dal letto.
Si era rifugiato in quel posto, che riteneva sicuro, sotto il falso nome di Antonio Carbonara di Firenze, ma la spiata era sicura e gli agenti non fecero fatica a riconoscerlo per il vero Zaccherini.
Il processo in corte d’Assise, fu il trionfo della malavita bolognese. L’aula era gremita di folla, di uomini di malaffare e di donne dedite alla vita allegra. Tinti troneggiava al centro del gabbione mentre la Giggina era assente perchè minorenne.
La requisitoria del Pubblico Ministero fu un feroce atto d’accusa contro la malavita bolognese e il sottobosco che la proteggeva .
Tinti fu condannato a parecchi anni di carcere ed uscì oramai verso la cinquantina ancora arzillo e con parecchie idee per la testa.
“Tinti uscì dal carcere nel giorno in cui Bologna festeggiava il suo cinquantesimo anno di liberazione dal gioco e dalla dominazione austriaca, e mentre sulla sera la cittadinanza prendeva parte ai festeggiamenti, per le vie Indipendenza e Rizzoli, egli insieme ai suoi vecchi e fedeli amici festeggiava la sua liberazione dal carcere in una stanza di via Ballotte.
C’era presente il fior fiore della malavita bolognese, e non mancarono le bottiglie di champagne per allietare l’originale convegno propiziante l’avvenire e alla fortuna dei tatuati.
Terminato il convegno ,il Tinti salutò con effusione gli amici dicendo loro .
“Addio amici, ora mi do.......... all’aria libera, perchè non voglio essere soggetto alla sorveglianza della P.S. “
La profezia del bandito fu davvero azzeccata, perchè fu ricercato per mesi e mesi, per contravvenzione all’obbligo di presenza del foglio dei vigilanti e non lo si trovò più fino al 1919, quando dall’Austria arrivarono notizie , poco allegre sulla sua attività. La polizia però non cessò di darle la caccia, ma inutilmente, riuscendo a beccare soltanto qualche pesce piccolo.
“Alle 12, 35 di ieri un pattuglione di guardie della squadra mobile in perlustrazione per varie osterie della città, capitò in quella condotta da Linda Guermanni in via del Falcone, all’angolo di via paglietta, in cui sogliono darsi convegno i pregiudicati di ogni risma.
Vennero sorpresi dei vigilati ,ed ex vigilanti che confabulavano tra di loro.
Ma essendo ciò proibito furono tratti in arresto certi Raffaele Riguzzi di Carlo di anni 26 ed Alberto Sirotti fu Alessandro di anni 20.
Questi era uscito ieri mattina dal carcere ed era uno dei “ Tatuati” appartenente all’associazione capeggiata dal Tinti.
A proposito del Tinti, quando questi uscì dal carcere egli venne accompagnato in Questura , ma giunto in piazza Vittorio Emaunele riuscì a fuggire alla guardia che lo accompagnava.
Ora or dunque , egli è nuovamente ricercato “
Tinti in carcere si era specializzato in grassazioni di altro tipo, come lo sventramento di casseforti che poi, in epoca successiva, fece scuola a Bologna.
Dietro l’insegnamento di “esperti “ del settore, Ugo Tinti divenne uno specialista di quest’arte che in Bologna ebbe grandi maestri .
La banda capitanata dallo stesso Tinti , rinserrò le file e dopo qualche colpo guidata dal fratello Luigi, espatriò in Germania dove cinque anni dopo , subito dopo un grosso furto, furono presi e ammanettati
La notizia dell’arresto della banda, riprodotta in grande stile dopo la scarcerazione dei rimanenti, giunse a Bologna alla fine dell’anno 1913.
“Nel pomeriggio di ieri, una inattesa sensazionale notizia perveniva alla nostra Questura, comunicatale dal Console Italiano di Mùlhausen, nell’Alsazia, per mezzo della direzione Generale della P.S ; notizia che faceva dare un sospiro di sollievo al commissario Argentieri della squadra mobile.
Ugo Tinti, il famoso capo dei “ tatuati” scomparso da Bologna era stato finalmente arrestato dalla polizia tedesca, la quale supponeva bensì di essersi impadronita di buona parte della selvaggina, ma non ti tanto valore, quanto lo era effettivamente per quella Italiana, ed in speciale, per la nostra Questura.
Ricordiamo brevemente alcuni avvenimenti che si svolsero in Bologna all’epoca del Tinti.
In quegli anni, Tinti era un giovanetto di 17 anni, smilzo di statura, ma di corporatura robusta e di una audacia non comune, accoppiata sempre peraltro ad un senso di previdenza e di scaltrezza che in breve gli giovarono per capeggiare una banda di giovani delinquenti del Mirasole e del Pratello.
La Questura di Bologna allora diretta dal delegato Ungari, ebbe non poco da fare per tenere a freno il più che era possibile la banda Tinti, i cui componenti portavano tutti sulle braccia, alcuni anche sul petto, dei tatuaggi di diversa specie in odio alle spie e alla polizia.
Uno dei tatuaggi, se ben ricordiamo, più comuni, era il disegno d’un pugnale confitto nel cuore..............Dopo la condanna e la fuga, correva voce che il Tinti e i suoi fidi tra cui Giovanni Degli Esposti detto “ Zanna”, Cesare Marchesini detto il “ Papà” e Adelmo Pedrini detto il “ Montanarino “ assieme alla fidatissima e innamoratissima Luigia Jonice, fossero salpati per le Americhe, invece erano emigrati in Svizzera poi in Alsazia dove sono stati arrestati per furto “
La banda dopo aver scorri bandato per la Svizzera si era fermata in Alsazia, dove si era fatta conoscere dalla malavita locale, per avere svaligiato alcune casseforti, aperte con perizia e maestria.
Riproduciamo le fotografie degli svaligiatori di casseforti, veri maestri in questo ramo, arrestati dalla polizia germanica e riconosciuti per i pericolosi latitanti Ugo Tinti, Cesare Marchesini, Giovanni Degli Esposti, Adelmo Pedrini e Luigia Jonici , ricercati da molto tempo dalla questura di Bologna
Da Mùltansen, dove la banda dei tatuati, della quale era il capo Tinti, venne arrestata dal giudice istruttore imperiale, che ha trasmesso le fotografie dei delinquenti, imputati di vari furti, di casseforti, al Console Germanico in Italia “.
All’atto della cattura in terra tedesca, i componenti della banda erano in possesso di documenti con foto e nomi falsi e si erano qualificati come:
Marchesi ( Pietro Randoboschi)
Tinti ( Francesco Liverani )
Degli Esposti ( Giovanni Aldi)
Solo la Jodice non aveva documenti falsi e si qualificò con le proprie generalità.
Un fatto curioso, riportato dalla polizia tedesca, fu quando sottoposero Ugo Tinti, al confronto con il resto della banda. Uno di fronte all’altro, presero a parlare una lingua incomprensibile per gli agenti tedeschi , e Tinti raccontò , dopo parecchio tempo, che il confronto si svolse alla Bolognese, nell’idioma più conosciuto da tutti .
Altro particolare , fu quando gli agenti della stazione di polizia di Mùlchansen sottoposero il capo al rito della foto segnaletica.
Tinti sotto il riflettori della ripresa, presa a torcere il naso e la bocca cercando di non farsi riconoscere, ma gli agenti tedeschi tennero duro e andarono avanti a fotografarlo fintanto che il famoso bandito non si fosse messo calmo e senza torcimenti della bocca.
L’intera banda fu ricondotta a Bologna in manette, e del famoso Ugo Tinti non si seppe più nulla.